Dopo anni e anni di scuola si è consolidato il dogma che la scuola sia fondamentale per la società al punto che la frequenza scolastica è passata ad essere, non più solo un’opportunità o un diritto, ma un dovere per il cittadino, il quale è ormai costretto, per un motivo o per l’altro, a dedicarci gran parte della sua esistenza, modificando a questo scopo le sue abitudini, le sue prerogative e il suo carattere.
Analogamente crediamo ciecamente che impartendo un’educazione e un’istruzione uguale per tutti la scuola pubblica rappresenti l’ambiente primario delle pari opportunità: il professore di mia figlia racconta: ≪la scuola è bella, è gratuita, serve per dare a ognuno di voi l’opportunità di crescere e imparare senza discriminazioni≫. Tutto falso. La scuola in generale non è bella, non insegna quasi niente di utile, sicuramente non è gratuita, anzi rappresenta una voce di costo enorme per la società, ed è il luogo dove si attuano e si perpetuano gravi discriminazioni.
Ma la scuola è anche lo strumento principale per la salvaguardia e il consolidamento dei privilegi sociali e per la sopravvivenza di un sistema economico fondato sull’omologazione della domanda e sul consumo di beni futili. Per questo motivo gli Stati, in ogni parte del mondo, dedicano ai propri sistemi scolastici, enormi sforzi e risorse senza offrire nessun vero beneficio perché tutto ciò che l’individuo impara di utile lo fa fuori dalla scuola, o alle volte incidentalmente a scuola solo perché ≪la scuola è diventata un luogo in cui si passa segregati una parte sempre crescente della propria vita≫; (Ivan Illich).
Il prevedibile fallimento di ogni riforma scolastica è dovuto a quatto fattori principali:
- la resistenza di un’ampia fetta di popolazione;
- il potenziale, costante, aumento della spesa e la contestuale progressiva mancanza di risorse economiche;
- l’inadeguatezza intrinseca del personale docente (G. Papini);
- il tempo di latenza superiore alla lungimiranza di qualunque Stato o governo (≪Non possiamo pretendere di sapere di che cosa avranno bisogno i nostri bambini e i nostri giovani, non oggi o domani, ma fra un anno, dieci anni, vent'anni, per il resto della loro vita...≫; G. Esteva).